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Django (1966)

Django

La morale è che a Franco Nero non je devi cacà er c***o.

Blin blon, blin blon blin blin blon, blin, blinblonblinblon, blin blon, blin blon blin blin blon, bobobobobobobon Djangooooooooooo Gengo, have you always been alone?”. E così, solo con qualche nota, la voce potente di Rocky Roberts e un uomo che trascina una bara nel fango sotto la pioggia, fin dalle prime immagini nacque una leggenda: Django.

In fondo gli spaghetti western erano poco più di un’idea, in pieno contrasto con gli standard americani, spesso girati con quattro soldi che non bastavano mai (ve ne ha parlato benissimo il nostro Robert De Lirio a proposito della trilogia del dollaro di Sergio Leone). Lo stesso Franco Nero, protagonista indimenticabile di Django, ha dichiarato che all’inizio delle riprese il film non aveva nemmeno una sceneggiatura, c’era solo un’idea. L’idea, come già avevano mostrato Per un pugno di dollariPer qualche dollaro in più, era quella di un west senza ideali e senza eroi. Quello dipinto da Corbucci è un mondo di fango, cinico, cupo, in cui ognuno pensa solo a se stesso. Django è un vagabondo solitario, con l’anima rinsecchita dalla guerra civile e dalla morte della moglie, che girovaga con la propria bara al seguito. Ma non c’è poesia, non c’è ideale in lui: il suo scopo è lo stesso di tutti, l’oro. Un pezzo di fango in un mondo di fango.

Se vi siete mai chiesti “ma da dove avrà preso tutta ‘sta passione per la violenza Tarantino?”, non cercate oltre. Django è un film che, al netto dei limiti tecnici-economici dell’epoca, risulta violentissimo anche per gli standard moderni (basti pensare che in Inghilterra è stato bandito fino al 1993). E infatti il buon Quentin gli rende omaggio con la scena dell’orecchio in Le iene, prima ancora che con Django Unchained. Una violenza che in questo caso presenta sempre il conto della propria avidità e del proprio cinismo e non lascia scampo a nessuno, o quasi.

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