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Il processo ai Chicago 7 (2020)

Il processo ai Chicago 7

Il film per tutti i nostalgici del fermento rivoluzionario della fine degli Anni ‘60, solo che stavolta Borat è il capo degli hippie.

Nel 2014 Netflix ricevette una nomination agli Oscar per un suo film, il documentario The Square, la prima nella sua giovane storia. A distanza di sette anni le nomination sono diventate 36, con svariati film al seguito. È ormai assodato che Netflix sta spodestando Hollywood dal trono dell’Olimpo del CinemaMank, il film che segna il ritorno di David Fincher alla macchina da presa, si presenta candidato per ben dieci categorie. A seguire, con sei candidature, Il processo ai Chicago 7, diretto dallo sceneggiatore Aaron Sorkin, alla sua seconda regia. Curioso poi che Fincher e Sorkin, il cui sodalizio, rispettivamente come regista e sceneggiatore, ebbe come risultato The Social Network (2010), si ritrovino quest’anno ad essere diretti contenders sul red carpet. Ma parliamo del film di Sorkin.

Il processo ai Chicago 7 è una creatura che sembra voler nascere documentario, con la pretesa, riuscitissima, di evolversi in un fantastico thriller giudiziario, sostenuto da un cast inarrivabile. Il periodo storico preso a soggetto è il 1968, con tutto quel che ne consegue. Migliaia e migliaia di americani combattevano in Vietnam una guerra senza senso (e la macchina da presa di Kubrick si espresse in maniera monolitica sulla questione). Nel frattempo, a Chicago, nell’agosto di quell’anno, diversi movimenti pacifisti si mobilitarono per manifestare contro l’insensatezza di quella guerra. Ne nacquero degli scontri con la polizia.

La polizia caricò deliberatamente i manifestanti? Oppure ci fu qualche leader pacifista che, in barba ai suoi principi, aizzò la folla contro le forze dell’ordine? Ci fu un lungo processo a stabilirlo, in cui furono imputati sette leader dei vari gruppi manifestanti, i famosi Chicago Seven, ed è questo il fulcro portante della narrazione del film. Sacha Baron Cohen, tra i sei nominati per il film, interpreta Abbie Hoffman, il capo dei capi degli hippie. Sinceramente, non avrei saputo vedere un interprete più azzeccato di lui. Eddie Redmayne, Joseph Gordon-Levitt, Frank Langella, Yahya Abdul-Mateen II e Michael Keaton completano un cast a tratti sublime. Con maestria, ogni componente del cast delinea i personaggi scandendo chiaramente le nette differenze ideologiche che c’erano tra i vari rappresentanti dei gruppi pacifisti, e tutti i pregiudizi che dovevano subire dalla società benpensante americana. Una triste dimostrazione che fare la pace, spesso, è assai più difficile che fare la guerra.

Il processo ai Chicago 7 è documentario e reportage, scandito coi ritmi di una pièce teatrale, recitato con grande affiatamento artistico e confezionato come la migliore delle produzioni mainstream. Mettiamoci anche che il modo di raccontare il finale strizza l’occhio, forse un po’ troppo, alla giuria della statuetta dorata. Non a caso, pare che Steven Spielberg gironzolasse di tanto in tanto sul set per dare a Sorkin qualche saggio consiglio.

Fu proprio il regista di Indiana Jones a suggerire l’idea a Sorkin, nel 2006, di scrivere una sceneggiatura sulle vicende dei Chicago Seven. Un travagliato processo produttivo fatto di rimandi e rimescolamenti del cast e della crew che hanno però portato alla luce un prodotto eccellente, che probabilmente qualche statuetta la porterà a casa.

O voi nostalgici del fermento rivoluzionario di fine Anni ’60. Lo so, i tempi sono cambiati, avete ceduto al consumismo, fate colazione allo Starbucks, fate la fila per comprarvi l’iPhone e vi siete abbonati a Netflix. Eh, che ci vuoi fare i tempi sono cambiati. Niente paura, riassaporate un po’ i tempi che furono e godetevi Il processo ai Chicago 7.

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Robert De Lirio

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