Breakfast Club è il film più rappresentativo del cosiddetto Brat Pack, gruppo di attori che negli ’80 ricorreva (più o meno unito) così spesso in film adolescenziali che dette vita a un genere. La rabbia, l’egoismo di ragazzi frustrati fissati col denaro, cinici e apatici sono infatti immediatamente riconoscibili anche per chi quel periodo non l’ha vissuto. Sono i virgulti dell’America benestante, conformista, (a)morale.
L’espressione “breakfast club” è un eufemismo: 5 fra studenti e studentesse, che si odiano senza già conoscersi, vengono chiusi in biblioteca l’intero sabato, a scrivere un tema dal titolo “Chi sono io?”. “Breakfast club” è insomma una punizione senza fantasia, messa in atto da insegnanti senza fantasia. Ma cosa mai si può imparare così? Be’, non molto: che la società è divisa in classi: che gli amici si scelgono: che agli adulti non importa sapere chi sei, figurati chi vorresti essere: che devi capire che la vita è dura, è una merda! e prima lo capisci meglio è: che devi: devi devi devi: DEVI. S’imparano banalità.
Fortuna poi che le punizioni più idiote hanno esiti inaspettati. I compagni passeranno la giornata a urlarsi contro, insultarsi, farsi le canne e raccontare storie: e a fine giornata avranno imparato tantissimo.
E sì che i ragazzi sono degli stereotipi, l’insegnante che li controlla è vanesio e il bidello è un tipo saggio: ma i giovani attori sono bravi, il film è divertente, ti accoglie fra le braccia e ti spiega in parole semplici perché è diventato il manifesto di una generazione.
Ché negli Anni ’80 si dicevano così le cose, con romanticismo: “Non abbiamo paura del futuro incerto, ma di sapere già come cazzo andrà a finire“. Era l’ignoto a dare speranza. Perché un individuo ancora capace di sorprendersi, guardandoti andar via, potrà ancora chiedere: “As you walk on by, will you call my name? (Quando mi passerai accanto, chiamerai il mio nome?)” (cit.).