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Resident Evil: Welcome to Raccoon City – la fedeltà è una virtù sopravvalutata

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Meglio la fedeltà al videogioco del nuovo RE o l’estro tamarro della saga con Milla Jovovich?

Benvenute e benvenuti nella recensione di Resident Evil: Welcome to Raccoon City.

Ok, lo dico subito: a me i Resident Evil cafoni di Paul W.S. Anderson e Milla Jovovich piacciono. Di certo ha influito il fatto che della saga videoludica non mi abbia mai fregato nulla: conosco Resident Evil 2, nel senso che il mio vicino che aveva la PlayStation mi concedeva l’onore di guardarlo giocare; ho giocato lungamente a Resident Evil 4 sulla mia prima e per molti anni unica console, la GameCube (che non ho potuto sfoggiare davanti al mio vicino perché lui ormai aveva cambiato interessi, tipo la socialità), e ci ho giocato abbastanza a lungo da concludere il gioco e ricominciarlo col fucile dai proiettili infiniti ed esplorare anche alcuni minigiochi. Insomma, la mia conoscenza videoludica si è fermata sostanzialmente ad un singolo gioco e quindi a quel tanto che mi permettesse di non percepire l’opera di Anderson per quello scempio che, in effetti, è stata nei confronti della serie Capcom. Il publisher stesso, ça va sans dire, è stato comunque il principale fautore del suddetto scempio a fronte di incassi stratosferici.

A dirla tutta, proprio la totale strafottenza di Anderson nei confronti delle aspettative del fandom è stata con buona probabilità esattamente ciò che ha permesso all’adattamento cinematografico di decollare al cinema, diventando la franchise ispirata a un videogioco più remunerativa di tutti i tempi, seconda forse solo a Pokémon (dovrei andare a controllare ma mi secca e se pensassi che interessi davvero a qualcuno di voi credetemi l’andrei a cercare). Le persone interessate a vedere la trasposizione cinematografica fedele di un dato videogioco sono comunque meno delle persone interessate al genere action, o almeno così era ai tempi dell’uscita del primo film.

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La sostanza del discorso è: se ne sono fregati delle atmosfere horror del videogioco virando a tutta birra sull’action ignorante (aiutatemi a dire ignorante) e hanno guadagnato sempre più soldi in modo da fare nuovi film a ignoranza cumulativa finché il livello dello spettatore medio era così basso che, per far capire che era l’ultimo, il capitolo finale l’hanno letteralmente intitolato “The Final Chapter”.

Ok, ma il nuovo Resident Evil?

Dopo un climax sì glorioso, sul nuovo Resident Evil: Raccoon City grava dunque l’ingrato compito di rispondere alla seguente domanda: Resident Evil al cinema può far guadagnare un fracco di soldi a Screen Gems e Capcom senza vituperare la saga videoludica? In altre parole: Resident Evil al cinema può funzionare anche rimanendo fedele all’opera originale, e quindi rimanendo di base una saga horror in cui agenti speciali sparano in testa agli zombie creati (più o meno volontariamente) da una cattivissima casa farmaceutica (questo per dire che non è che di base il livello sia stato mai particolarmente alto)?

Perché i produttori abbiano ritenuto il caso di porsi proprio adesso questa domanda, rimane un mistero.

D’altronde della fedeltà al videogioco adesso non frega più a nessuno. Quelli a cui poteva interessare qualcosa adesso sono passati ad altri interessi, come il mio vicino, o forse hanno capito che se non gliene frega niente a Capcom, a loro che gliene entra di arrabbiarsi?

Tuttavia che l’horror sia ormai in grado di trascinare migliaia di persone al cinema non è una novità, quindi la scelta poteva anche essere azzeccata.

Va bene, vi dico com’è il nuovo Resident Evil: Welcome to Raccoon City

Quello che negli scorsi anni ha avuto grande successo di botteghino non è però il sottogenere di horror proposto da Resident Evil: Welcome to Raccoon City, ma quello giudaico-cristiano di The Conjuring.

Il ritorno alle origini della saga videoludica rappresentava tuttavia per il nuovo Resident Evil uno spunto interessante: in periodo di pandemia globale quanto è sfruttabile una franchise che racconta di come una casa farmaceutica abbia avvelenato milioni di persone a fini di lucro? Il reboot di Resident Evil perfetto sarebbe partito dunque da una base molto realistica à la The Walking Dead con il preciso scopo di sfoderare senza troppi complimenti il metaforone sugli zombie in stile Romero. Lo hanno fatto? In parte, e dispiace che non abbiano spinto di più su quel versante.

Il film è ambientato nel ‘98, una scelta più simbolica che di contenuto (eccezion fatta per l’assenza dei cellulari, ma tanto chi li usa mai negli horror?). I riferimenti agli anni ‘90 ci sono ma non sono troppo fastidiosi. Raccoon City è la corporate city della Umbrella Corporation, in cui la cattivissima multinazionale fa sostanzialmente tutto ciò che più le aggrada: test genetici sui bambini dell’orfanotrofio, avvelenamento delle acque comunali e altre amenità. La protagonista è Claire Redfield, un’ex abitante dell’orfanotrofio che torna dopo anni di assenza nella ridente cittadina perché sull’internet ha scoperto che “succedono cose strane” e vuole avvertire il fratello Chris. Chris è a sua volta un membro del corpo di polizia che è formato esclusivamente da agenti speciali, super modelli part-time.

Le operazioni di avvelenamento sono gestite dallo scienziato pazzo dagli occhi di ghiaccio che, part-time, fa anche il direttore dell’orfanotrofio e che ha anche un’adorabile famigliola.

Il resto della combriccola è composto dagli altri membri del corpo di polizia: Albert Wesker, Jill Valentine e il pivello Leon Kennedy. Com’è il film? È grazioso, ma scrivendone a distanza di una settimana sinceramente non ne ricordo più un granché, ed è per questo che ho impiegato più di metà della recensione di Resident Evil: Raccoon City parlando dei bei vecchi tempi in cui la fedeltà era un lusso che non valeva la pena di concedersi.

Gli zombie (quelli in grado di mangiarsi vivo qualcuno, non quelli che vengono ripresi mugolare davanti ai cancelli per mezz’ora prima di essere in numero abbastanza grande da superare le barriere che li separano dalle potenziali vittime che avranno aspettato fino all’ultimo momento per capire come trarsi in salvo) arrivano abbastanza tardi, e quando arrivano è un sollievo. Il film scorre, diverte, è scemo come i sassi e come niente te ne sei scordato. Insomma, perfetto per generare un sequel!

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Informazioni sull'Autore

Charlize Terùn

Emersa come dea ermafrodita dall'oro liquido sospirando "J'Adore", ha deciso che le piacque e piace tutto, compresa e in primo luogo la propria ambiguità. Quando la società imperialista le impedisce di vedere almeno 7 film a settimana diventa FURIOSA.

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