Roberto Benigni e Massimo Troisi insieme, nell’unico film scritto, diretto e interpretato da loro stessi. Già solo presentare così Non ci resta che piangere ha il sapore di quelle storie d’amore estive, tanto intense e travolgenti ma destinate a finire nel giro di qualche settimana o giù di lì. Eh sì, perché all’epoca i due erano già artisti della commedia, dall’identità comica vernacolare tanto diversa quanto iconica.
Ma a vederli lavorare insieme, sembra che i due si siano conosciuti da bambini, che ne abbiano passate di tutti i colori. Così non è. L’unica altra occasione in cui lavorarono insieme in un film fu un anno prima, in “FF.SS.” – Cioè: “…che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?” di Renzo Arbore. Probabile che si conobbero lì.
E fu subito amore
Non ci resta che piangere racconta di due amici della nostra epoca (o meglio… gli anni ’80) che si ritrovano catapultati nel 1492, così de botto, senza senso. La sceneggiatura e la regia non sono perfette, la storia ha qualche buco qui e lì, ma è chiaro fin dall’inizio quanto i due decisero di puntare tutto sulla loro sintonia. Molte delle scene furono improvvisate, della serie “parti col ciak, poi qualcosa ce la inventiamo”. Si veda la scena della lettera al Savonarola.
Ma il risultato è indimenticabile, irripetibile, una sinergia che nasce e muore all’interno della pellicola. Una sintonia comica che avrebbe meritato un’intera carriera insieme, al pari di Totò e Peppino, Jack Lemmon e Walter Matthau, Stanlio e Ollio.
Talmente si divertivano i due che, se fate particolarmente attenzione, ci sono momenti in cui a stento riescono a trattenere le risate loro stessi, come è lampante nella scena del fiorino. Due mostri della comicità che si incontrano per poi salutarsi per sempre. Guardare questo film è un dovere.