Paul Thomas Anderson, dopo Boogie Nights, era molto felice. Il film aveva avuto un successo inaspettato, e New Line Cinema gli disse: “Per il prossimo puoi fare quello che vuoi“. E lui fece Magnolia.
Ci vuole pazienza, per Magnolia: sono tre spudoratissime ore. È un affresco, e gli affreschi sono ampi, richiedono tempo e ripassate continue: il pennello non può fermarsi in un solo punto: definisce un tratto, poi passa a un’altra scena, ad altri contorni: s’intinge nella vernice, cambia toni, ripassa, si sposta ancora. Infine chiude, e ci mette la firma. Nel film, è il sorriso di una dei protagonisti a dire al coraggioso spettatore: “Sei arrivato fino alla fine, bravo“.
Ho dato a Anderson tre solitarie ore della mia vita, per questo film. È un’esperienza, vederlo da soli. Meglio ancora: con un dormiente. Sarai continuamente tentato dalla voglia di svegliarlo, per commentare, per dirgli: “Oh, appuntati ‘sta frase”, o “Ma quant’è bella Julianne Moore innamorata?” o ancora “Qui Tom Cruise doveva capire che il predicatore affetto da ipersessualità era il lavoro della vita” oppure “Sarà per il colorito roseo come il culo di un bambino, ma ancora non riesco a credere che Seymour Hoffman sia morto di overdose. Che bravo che era, però”.
Ma non lo farai. E allora penserai ad altro.
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