Ma quanto è bello e terribile il processo americano, in cui davvero si dà la parola ai giurati? La fissa degli Stati Uniti per la democrazia è da annali. Ne vanno così fieri – d’essere la più grande democrazia al mondo – che la sbandierano ovunque possono (salvo sospenderla per le elezioni presidenziali). Vuoi vedere che non la mettevano anche in tribunale?
E quindi le cose stanno più o meno così: al processo la decisione sulla consapevolezza o innocenza di un individuo è presa da 12 sconosciuti impreparati e arrabbiati. Al giudice, parzialmente esentato da responsabilità, spetta solo l’applicazione della pena prevista. Del tipo: “L’America ha parlato, si accomodi. No, sull’altra sedia, esatto, quella collegata alla presa elettrica”.
Proprio per evitare che un innocente finisca fritto o, almeno, per mettere in discussione tale eventualità si mobilita un incrollabile Henry Fonda. La particolarità de La parola ai giurati è che inizia dove film o telefilm dello stesso genere si concludono. Al regista Sidney Lumet non interessano i personalismi della corte, ma la giustizia sincera che prende forma quando gli uomini deliberano non visti, senza distinzioni di razza o stipendio. Ok ovvio, sono tutti maschi bianchi, ma nel ’57 un campione più variegato non sarebbe stato verosimile!
Capito che 1 vale davvero 1 e senza interferenze esterne, i 12 fanno qualcosa di rivoluzionario, applicano la legge! Comprendono che il loro dovere non è “giudicare” ma “decidere” e soprattutto comprendono la profonda differenza fra i due verbi. Non devi, cittadino, giudicare se uno è colpevole o meno, ma decidere se oltre ogni ragionevole dubbio il ragazzo merita la sedia elettrica.
La parola ai giurati mette in scena quello iato fra “la giuria si ritira per deliberare” e il famigerato “verdetto”, climax di ogni dramma processuale che si rispetti. E incredibilmente, visto l’argomento, è un grande lezione di fiducia negli esseri umani. Almeno finché non arriva O. J. Simpson a dimostrare che c’è sempre qualcuno più bianco di te.