La storia del giornalista kazako Borat – che in viaggio culturale negli “U.S. and A.” si scontra con una coppietta di anziani, prende lezioni di bon ton, impara a vestirsi come un nero, offende l’80% delle persone che incontra e s’innamora due volte – diventa nelle mani di Sacha Baron Cohen un racconto al contempo triste e spassoso, una critica feroce a due sistemi contrapposti. Cohen ha vinto numerosi premi, e dopo il film ha potuto dar vita a una sfilza di personaggi ugualmente indigesti. Ma per misurare il valore di Borat, piuttosto che stilare l’elenco dei suoi pregi, premi e ammiratori illustri, è più facile e decisamente più divertente enumerare la gente che il film ha fatto incazzare:
- la quasi totalità dei paesi a maggioranza islamica, che lo hanno pesantemente censurato o proibito;
- il governo russo, che ha scoraggiato i cinema dal proiettarlo;
- la quasi totalità degli americani che vi hanno involontariamente partecipato, dato che molte scene del film consistono nell’interazione fra Borat e ignari passanti, i quali hanno così mostrato la propria ipocrisia (se non a volte puro terrore) davanti a uno straniero privo di remore nel manifestare “usi e costumi” così diversi, o almeno spudorati;
- due studenti della South Carolina, che nel retrogrado personaggio hanno trovato un buon orecchio per le loro uscite sessiste e razziste;
- gli abitanti di Glod, in Romania, presentato da Cohen come un villaggio di ignoranti incestuosi;
- l’intero pubblico del rodeo di Salem, Virginia, che per poco non arrivò al linciaggio;
- Trump. Lui si arrabbia sempre.