La storia di Alien è la storia del gatto Jones dalle mille vite.
Siamo a fine Anni ’70, Star Wars è diventato il film più remunerativo di sempre e un certo Dan O’Bannon ha un’idea fissa in testa: realizzare un horror in cui la ciurma di un’astronave viene decimata da un inarrestabile alieno.
Benché realizzato sulla scia del successo della Skywalker Family, il film non ha nessuna intenzione di dare a chiunque lo guardi una nuova speranza. Lo stesso Ridley Scott, in fondo, lo descrisse come il “Texas Chain Saw Massacre della science fiction”. E per tutta la produzione, in effetti, 20th Century Fox non capì per cosa stesse spendendo quasi 10 milioni di dollari. A quel tempo, agli albori della New Hollywood, si ragionava ancora così: “È un horror? Allora è un B movie”. Ma regista e sceneggiatore puntarono i piedi, e Alien fu sì orrore spaziale, ma con stile: gioia putrescente di oro nero. E lode a H. R. Giger, che curò il design dell’antagonista e le scenografie.
Nel 2122, al rientro da una missione interstellare, l’astronave Nostromo intercetta un segnale di soccorso proveniente da un satellite. Costretto da protocollo ad atterrare, l’equipaggio trova misteriosi resti alieni con uova al seguito: una di queste si schiude e un piccolo Facehugger attacca il primo malcapitato. Questi, nonostante gli ordini del warrant officer Ripley (Sigourney Weaver), rientra sano e salvo. Salvo, certo, fin quando non gli scappa dal torace un alieno che, con simbolismo spicciolo, diventa il cuore pulsante della pellicola.
Alieno è aggettivo e sostantivo insieme: in terra straniera sono i membri dell’equipaggio, affidati a una madre di acciaio e circuiti; alieno il nome del terrore che uno dopo l’altro li inghiotte. Quelli della Nostromo sono operai. Sono nello spazio, ma la parte dell’eroe la lasciano a Ripley.
E al gatto Jones, che contro ogni aspettativa sopravvive. Un po’ come la franchise di Alien.
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