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Saranno cult?

The Irishman (2019)

The Irishman

Io ho gli anni che ho e me li sento tutti… me li sento tutti.

Uscito dalla sala dopo essere sopravvissuto a 3 ore e mezza ininterrotte di The Irishman, mi sono venute in mente le parole della cagna maledetta, Corinna N***i, che in una scena di Occhi del cuore per mascherare la sua età diceva sospirando: “Io ho gli anni che ho e me li sento tutti“. Ho sentito come un cazzottone gigantesco sul grugno che mi ha stordito completamente. Non avevo la più pallida idea di cosa pensassi veramente del film, ma mi sentivo pieno come dopo i pranzi al ristorante sotto casa in cui si riuniva tutta la famiglia per festeggiare i compleanni di Zia Pina.

Fin da Mean Streets, in fondo, Martin Scorsese ha sempre cercato in qualche modo di inserire i grandi pranzi di Zia Pina nei suoi film, intesi come le proprie origini, che sono sempre state un caposaldo nel suo modo di intendere il cinema e anche in questo caso risulta chiaro. Ma The Irishman è un film diverso dal vecchio Scorsese, perché sa di vecchio: parla di vecchi e di vecchiaia e soprattutto di morte e del suo inevitabile approssimarsi. È talmente consapevole del peso del tempo passato che comincia a riflettere su se stesso fin dalla prima scena. Se in Quei bravi ragazzi il piano sequenza in cui Henry e Karen entrano al Copacabana dal retro serviva ad evidenziare il lusso sfrenato e la riverenza che il personaggio interpretato da Ray Liotta aveva raggiunto proprio passando da una metaforica porta sul retro del mondo della malavita, qui il film inizia con un piano sequenza che esplora una casa di cura e si conclude su un vecchio Robert De Niro su una sedia a rotelle. Basterebbe già questo a rendere The Irishman un cult di domani per i giovani di oggi che saranno i vecchi di domani. Ci siamo capiti no?

The Irishman tra Storia, mafia e vecchiaia

Proprio come quelle domeniche in cui da piccoli andavate a trovare i vostri nonni e questi vi attaccavano un pippotto enorme che cominciava sempre con “Era il 1957…” e voi che sbuffavate, ma rimanevate ad ascoltare, così Robert De Niro nei panni di Frank Sheeran si fa voce del film stesso e quindi di nonno Marty e vi racconta una storia che parla di America, di mafia, ma soprattutto di vite umane in bilico tra una tragedia e l’altra. Perché The Irishman è costituito da tre livelli differenti di narrazione uno sovrapposto all’altro. Tranquilli nulla di complesso alla Christopher Nolan, ma provate a pensare ad una sala in cui ci sia uno schermo di fronte a voi. Se vi trovate perfettamente centrati apparentemente vi sembrerà di vedere un solo schermo sul quale scorre una storia di gangster che attraversa un pezzo di Storia americana. Se invece cominciate a girargli attorno, vi accorgete che non è uno solo, ma sono tre sovrapposti. Il primo, e più trasparente, è quello che mostra le vicende storiche americane dagli anni ’60 in poi. Il secondo è quello che descrive le angherie del malaffare italoamericano, mentre il terzo, che è il cuore di questo meccanismo, mostra le scelte e le emozioni spesso soffocate di tre uomini nell’arco della loro vita.

Perché vi ho riportato questa metafora? Perché sono state fatte accuse all’autore del libro da cui è tratto il film (I heard you paint houses di Charlie Brandt) di aver raccolto la testimonianza falsa di un uomo, il vero Frank Sheeran, che in punto di morte ha voluto lasciare una traccia di sé, appropriandosi di crimini che non avrebbe in realtà commesso, tra cui l’omicidio di Jimmy Hoffa che è al centro del film. Di conseguenza anche Scorsese è stato bersaglio di critiche per aver mostrato una storia che sostanzialmente non sarebbe veritiera. Tutte queste accuse lasciano il tempo che trovano, perché a nonno Marty non frega una beneamata ceppa della verità, perché non è quella la storia che sta raccontando, è solo una cornice, uno schermo, un filtro. Il succo della questione sta nei tre protagonisti, che rappresentano una buona fetta del modo in cui gli esseri umani si relazionano a ciò che gli succede nella vita. Il Jimmy Hoffa di Al Pacino è l’uomo che ha preso sempre il toro per le corna, quello che vuole le cose a modo suo e che sa quando fare compromessi e quando pretendere una puntualità svizzera dalle persone. Il Russell Bufalino di Joe Pesci è quadrato, razionale, ha sempre avuto tutto sotto controllo e per questo non è mai andato sopra le righe (un contrasto magnifico col Joe Pesci a cui ci aveva abituato Scorsese tanto che, ci metto la mano sul fuoco, a marzo Joe avrà un’altra statuetta degli Oscar sulla mensola) e quasi stona in mezzo al resto dei mafiosi italiani. In mezzo a loro il Frank Sheeran di Robert De Niro, un uomo che ha sempre avuto buone intenzioni, ma che non ha il polso per prendere in mano le situazioni e si lascia trasportare dal flusso degli eventi e si ritroverà diviso tra questi due grandi amici lasciando che sia il “destino” a scegliere per lui. Se proprio vogliamo trovare un difetto grosso di questo film è quello di non aver trovato modo di dare un ruolo a Marisa Tomei, che sarebbe stata perfetta per qualsiasi cosa (come sempre del resto, Marisa ti amo).

Ma in fondo questo è veramente The Irishman: la riflessione di uomini che hanno vissuto le loro vite quasi sempre al massimo e ora, come gli spettatori per tutta la durata del film, si ritrovano vecchi e stanchi ancora a correre su un viale lastricato di foglie bagnate, consapevoli che l’esito di quella corsa può essere solamente uno.

 

Punti cult

  • De Niro, Pacino, Pesci e Keitel, diretti da Scorsese. Signò so 3 e chili e 2 de cult, che faccio, lascio?
  • Piano sequenza iniziale autocitazionista
  • Tony
  • Sì, ma quale Tony?
  • Non ho mai nominato il ringiovanimento in CGI dei protagonisti nell’articolo, il che significa che non dà fastidio
  • Il film che probabilmente farà guadagnare a Netflix tanto rispetto come produttore di serie A, a differenza di Roma
  • Ogni film di gangster dopo questo non avrà più la stessa rilevanza

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Kult Russell

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