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Bridgerton: e Jane Austen riposi in pace

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La serie in costume su Netflix non ha bisogno (né deve) chiedere il permesso a Jane Austen: nel confronto Bridgerton muore, lunga vita a Bridgerton!

Non osare svegliare la Austen che dorme. Del resto, non è il caso di scomodare la regina del costume drama per parlare di Bridgerton. Altri riferimenti sovvengono mentre guardiamo la serie: da Gossip Girl a Marie Antoinette di Sofia Coppola, non c’è limite alla ricchezza degli indizi che fornisce Shonda Rhimes nel produrre questa serie.

Alla prima puntata, causa anche l’eccesso di lodi che ha costretto i miei colleghi a farmi recensire Bridgerton con una certa urgenza, ho creduto di potermi opporre e di stroncarlo senza pietà alcuna. Ma che c’entra Jane Austen? Chi è questa Julia Quinn che dall’America crede di poter battere il palco di una delle penne più eleganti della letteratura in Occidente? Sarà una nuova icona del mito americano, abituato a trasformare ogni zucca in carrozza?

Ora, questa recensione doveva uscire giorni fa e sarebbe andato tutto liscio se mi fossi fermata alla prima puntata. Il piano era questo: verifica che sia una cagata pazzesca e rispediscila al mittente. Tuttavia, mi accorgevo che fra la seconda e la terza puntata il mio “dài, guardiamo Bridgerton, perché devo recensirlo!” suonava sempre più falso:

io, una disincantata femminista, Bridgerton volevo vederlo per davvero. Perché?

La serie a dire il vero, non ha nulla dei dialoghi sottili e intriganti fra Lizzy e Darcy di Orgoglio e Pregiudizio, né della caratterizzazione di Emma. Sebbene la differenza etnica sia stata superata e integrata alla storia con un escamotage, si sente tutta la mancanza del conflitto sociale. In un’epoca nota per la centralità dell’istituto matrimoniale nella contrattazione economica e politica, la rimozione di un punto di vista realista e opprimente, portatore dei valori patriarcali, è un peccato criminale per la sceneggiatura, per i personaggi e persino per l’ambientazione. Senza il conflitto interno alla storia  manca lo spirito potente di quelle donne che per cambiare una cultura devono liberarsi dall’iperrealismo soffocante di una società che può (ancora) minacciarle attraverso l’approvazione e il sostegno economico. In racconti come questi, la vita di una donna ha il potere di evocare speranze e parlare anche alle menti più moderne.

Non ci sono veri conflitti nella serie. La famiglia Bridgerton, la protagonista a cui farebbe capo il potere di sconvolgere gli assetti sociali, è una famiglia ricca e libera: Daphne ha una madre che è l’opposto della signora Bennet e che, dall’alto della sua posizione sociale, può lasciare che la figlia si sposi per amore. Che ne è della sfida narrativa che rende sofferenti le scelte (e le conquiste) dei personaggi? Quello che manca di questo costume drama è il dramma del costume ottocentesco. Non c’è un intreccio avvincente dal punto di vista storico: anziché mostrare, attraverso i personaggi, i conflitti di potere (economico e sociale) della società inglese pre-vittoriana, il ben più americano Bridgerton relega i piccoli conflitti alle storielle interne che ci intrattengono grazie all’espediente di Mrs Whistledown, la “giornalista di città”. Dal punto di vista della critica di costume, Bridgerton fa anche peggio: Mrs Whistledown (di cui non conosciamo l’identità fino alla fine della prima stagione) non è solo “la vicina di casa” che sa tutto di tutti, che spettegola e che rivela la verità. La sua anonimità inevitabilmente la rende l’unica donna libera dai vincoli dell’alta società, ma è anche implicita, vera e unica villain dell’intera storia: odiata dai Bridgerton, dai Featherington, da tutta la comunità e dalla regina in persona!

Tuttavia, la banalizzazione della profondità narrativa non è un’operazione vana e gli americani sanno come alzare i toni entusiastici dei piccoli drammi: molte storie e stracariche di eros. E a chi, come me, piace viziarsi con un’estetica “comfort” – che tramite i cliché ci permette di andare in stand-by cognitivo – questo show Netflix non può non piacere: è una sorta di “riposo indotto” fra una passione intellettuale e un impegno emotivo.

Glamour, piccante, hot e affascinante: sono questi gli aggettivi immancabili in ogni recensione di Bridgerton (e che con quest’escamotage non mancano neanche a noi). Che vi piaccia o no, è proprio questo stile che smerletta le storie in un’unica grande opera di seduzione. L’irresistibile bellezza di Simon e il suo tormento interiore, l’ingenuità di Daphne che desidera il bene e la giustizia; la riluttanza al matrimonio e la curiosità di Eloise; l’affaire fra Anthony Bridgerton e Siena Rosso, “la condizione” di Marina Thompson e l’avidità di Lady Featherington (unico caso di disagio economico, comunque dovuto alla mala amministrazione del marito non ad uno status di classe): non c’è una seria redenzione politica per una serie così colma di cliché. Tuttavia Bridgerton è un’overdose narrativa e, in quanto tale, non puoi semplicemente rimproverarci di desiderarne ancora e ancora.

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Mia Ansia-Love

Quando pensi che il romanticismo non faccia per te e poi t'innamori dei film francesi, quando ti senti un'immigrata perenne e poi ti dicono "radical chic", quando studi il pensiero degli uomini per poi accorgerti che le donne sanno già tutto da sempre nasce Mia Ansia-Love: una persona che dirige l'ansia per poterla amare.

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