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She-nema, Episodio 1: Registe del Mezzogiorno

Donne, ricerca della Verità e Mezzogiorno.

Ricominciamo dal Cinema e QUINDI dal Cinema delle Donne. Sì, perché nonostante tutte le sgomitate che ci hanno dato nella storia scritta dagli uomini è ormai noto che la prima regia ad aver portato il Cinema Italiano fuori dai suoi ridotti confini geografici è quella di una donna del Sud, Elvira Coda, più nota (ahinoi) col cognome del marito, “Elvira Notari”. Da lì abbiamo proseguito.

Abbiamo voluto indagare il rapporto delle donne con lo spazio del Cinema, uno spazio incarnato nella ricerca, quella vera, quella fisica oltre che immaginativa e narrativa. Questo primo intuito, di un rapporto stretto fra corpo, spazio, verità e fantasia ci ha immediatamente condotte alle Registe del Mezzogiorno. Non a caso esce il 9 Maggio il nostro podcast sul Cinema, il giorno in cui hanno ucciso Peppino Impastato e in cui comincia il percorso di una madre del Sud, Felicia Bartolotta, per dire di no all’invisibilizzazione, all’insabbiamento e alla menzogna.

È quindi un omaggio a Peppino, un cittadino del Sud che decise di rimanere nel luogo in cui viveva nel tentativo di estirparne la struttura Patriarcale più violenta ed esplicita, quella mafiosa (che infatti apparteneva anche al suo proprio padre). Ma è un omaggio anche a Felicia Bartolotta che in questo 9 Maggio del 2021 in cui cade la Giornata dedicata alle Madri ci sembra rappresenti perfettamente lo sguardo della donna che non si lascia intimorire dalla realtà e che, anzi, col suo sguardo responsabile e coraggioso, la trasforma. Alla madre Felicia Bartolotta che, superando o, meglio, attraversando la propria personale sofferenza, decide di raccogliere la sfida del dolore e trasformare la sconfitta in un atto di amore insieme personale e politico.

In continuità con la presa di posizione di Felicia Bartolotta, abbiamo voluto omaggiare quelle donne, le nostre Registe del Mezzogiorno, che simboleggiano la ribellione ad una narrazione esterna opprimente, con la propria voce, con il proprio corpo e con il proprio sguardo.

ELVIRA NOTARI e FRANCESCA BERTINI: L’invenzione del cinema italiano

registe del mezzogiorno elvira notari a santa notte

È napoletana Elvira Notari che – com’è ormai noto –fu la prima pioniera del cinema italiano e la prima, in assoluto, ad ottenere riconoscimento anche all’estero.

Carmela la pazza (1911), Figlio del reggimento (1915), Carmela la sartina di Montesanto (1916), La Medea di Portamedina (1919), Gennariello il figlio del galeotto (1921), Trionfo cristiano (1930), sono alcuni dei titoli dei circa 60 lungometraggi che realizzò insieme ad un centinaio di corti. Per i suoi film la regista chiamava sempre giovanissimi attori e attrici, i quali – in seguito –sono diventati straordinari caratteristi. Come Tina Pica che, prima ancora di essere scelta da Edoardo de Filippo per Natale in Casa Cupiello e da Vittorio de Sica per interpretare l’anziana scorbutica nel film Pane e amore e fantasia fu lanciata da Elvira Notari, per la prima volta in ben due film del 1916: Carmela, la sartina di Montesanto e Ciccio, il pizzaiuolo del Carmine. Ai suoi film partecipano anche popolani, gente presa dalla strada, e infine anche Rosella Angioni che con il nome d’arte di Rosé Angioni diverrà una delle attrici più famose – non solo – di Elvira Notari.

Le sue opere sono romanzi popolari: Elvira ama Matilde Serao (con la quale però non avrà mai un buon rapporto) e Carolina Invernizio. Nelle sue storie c’è sensualità, desiderio, amore, ma c’è anche la povertà e il sogno di una vita diversa; ci sono triangoli amorosi e catarsi finali, ma anche madri combattenti e forti. C’è il melodramma ma anche qualcosa in più: realismo crudo; riprese dal vero e inserite nel film perché la regista non teme di illuminare la povertà e l’ignoranza. Il mondo che ritrae è infatti quello della Napoli misera dei “vasci”, i bassifondi del capoluogo campano, delle case dei pescatori; la vita degli scugnizzi, il dramma di chi non ha niente.

Non è facile per Elvira, per una donna, essere regista, eppure nel cinema delle origini, la presenza femminile è notevole. Non solo addette al montaggio e alla coloritura delle pellicole, un ruolo che a dirla tutta non era neppure tanto lontano dalle loro abitudini, se assumiamo ― con Giuliana Bruno ― che «il montaggio somiglia al cucito»; le prime donne del cinema erano attrici, ma anche registe, produttrici e direttrici di scuole di recitazione.

Francesca Bertini, ad esempio, che fu la prima Diva del cinema nel film del 1915 Assunta Spina, non si limitò affatto a recitare: fu impossibile per lei fare solo una parte del tutto e una volta cominciate le riprese – che dovevano essere dirette da Gustavo Serena – Francesca Bertini si trasformò in un corpo solo col film. La sua intelligenza mista ad un’intuizione del tutto pragmatica e progettualmente orientata ebbe il sopravvento sulla realizzazione del film. Dietro e davanti alla cinepresa, disse Gustavo Serena:

«chi poteva fermarla? La Bertini era così esaltata dal fatto di interpretare la parte di Assunta Spina, che era diventata un vulcano di idee, di iniziative, di suggerimenti. In perfetto dialetto napoletano, organizzava, comandava, spostava le comparse, il punto di vista, l’angolazione della macchina da presa; e se non era convinta di una certa scena, pretendeva di rifarla secondo le sue vedute.[1]»

L’interpretazione divenne parte integrante di un progetto più grande: fare un film. Non è un caso che Assunta Spina sia il primo film della storia del cinema mondiale a sperimentare con la macchina da presa vedute panoramiche reali di una città, impensabile per le tecniche scenografiche del tempo. Quando il desiderio di una donna viene lasciato libero di esprimersi, materialmente e spiritualmente, la scienza coincide con l’arte.

Il problema, per le donne e per le professioniste, però, non è solo quello di riuscire ad ottenere mezzi, spazi e libertà di esprimere tutte le loro capacità, ma poi anche quello di essere riconosciute nell’albo illustrato dagli uomini. Quando si dice “Neorealismo”, ad esempio, tutte e tutti noi pensiamo alla corrente cinematografica iniziata con Rossellini, De Sica, Visconti e De Santis. «Ma per il periodo storico, il dopoguerra!» si dirà! Eppure – a meno di cercare direttamente il nome di Elvira Notari e andare a ritroso nella nicchia storica cui le femmine umane vengono relegate come specie specifica dell’uomo – nei capitoli storici del Neorealismo non si fa cenno dell’apporto materiale e dell’esempio pioneristico pur riconosciuto nei film di Notari. Ed è possibile rendersene conto in prima persona, guardando uno dei pochi film (fra i più di cento realizzati) conservati nella Cineteca nazionale di Roma, qualcuno dei quali ancora pubblico in alcune piattaforme di streaming, come È piccerella e ‘A santanotte del 1922 e Fantasia ‘e surdate del 1927.

Ma è possibile rilevare un rapporto intimo fra l’occhio registico femminile e quel sentimento realista, un po’ verista tipico della letteratura del Mezzogiorno?

EMMA DANTE – Lo spazio fisico e le condizioni di creatività

Il valore più grande che ha per me un gesto artistico è l’offerta della propria miseria e della propria dignità”, è Emma Dante a dirlo, la drammaturga e regista palermitana, che dopo aver provato da giovane la carriera di “attrice” sente forte l’esigenza di stare fuori dal palcoscenico e di “fare la guardona”. Emma Dante sente abbastanza presto il bisogno di osservare e guidare “l’azione”. Ed è proprio questa la particolarità della sua regia: la sua direzione consiste nell’investire attori e attrici di un ruolo responsabile, che siano in grado di generare dentro di sé la parola e scoprirla durante la creazione. Una pratica non consueta (se ad esempio pensiamo a registi uomini apprezzatissimi come Michelangelo Antonioni che nulla chiedeva ad attori e attrici se non di svuotarsi totalmente e di adeguarsi e riempire alla perfezione col loro corpo la sua idea perfetta di azione). Ma di ciò, SPOILER ALERT, parleremo nella nostra prossima puntata, per la rubrica de “I toccabili”, la rubrica che mette nel banco degli imputati i registi più conclamati.

Tornando a noi. Dante afferma che, in effetti, il teatro non si può insegnare, che sarebbe come insegnare la vita. Si può piuttosto insegnare a esercitarsi sul ragionamento intorno alla scelta, alla motivazione reale, alla necessità di fare questo percorso. La regista stessa non nasconde affatto la volubilità del suo percorso – anche piuttosto repentino – da attrice a regista ed è fruttuosa la frenesia dei suoi spostamenti da Palermo, a Catania e poi a Roma, a Torino e così via, per raccogliere nei suoi occhi la cultura e le suggestioni che si ritrovano intorno al suo corpo.

Sono le “condizioni di creatività”, come le chiama la regista Dante, i fattori da cui dipendono le espressioni artistiche, il teatro e il cinema stesso: il come e il se sappiamo stare dentro il “pericolo” della creazione. Per questo la regista non teme neppure di ritornarci a Palermo e di fondare qui, nell’agosto del 1999, il cuore del suo teatro, la compagnia Sud Costa Occidentale, che tutt’ora lavora nella ex fabbrica di scarpe La Vicarìa. Ma non è uno stabile in senso forte, il lavoro al suo interno è come quello di una comunità di ricerca, come anche una famiglia potrebbe essere in una comunità eterogenea. Con le parole di Emma Dante:

Scomodo, sì, perché la ricerca fa traballare le sedie e persino i cuscini! La compagnia Sud Costa Occidentale di Emma Dante infatti dà vita a una serie di sperimentazioni sceniche che culminano nella Trilogia della famiglia siciliana, mPalermu (2001), Carnezzeria (2002) e Vita Mia (2004), con cui Dante vince diversi premi; il premio “Scenario” nel 2001, il premio Ubu per mPalermu nel 2002 e il premio Ubu per Carnezzeria nel 2003.

Nel 2007, infine, esce il libro Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana pubblicato per Fazi Editore e con una prefazione di Andrea Camilleri.

Lo spazio teatrale di Dante e del Sud Costa Occidentale alla Vicarìa è uno spazio autogestito e autofinanziato, il cuore della sperimentazione, un laboratorio teatrale permanente ma aperto agli scambi di ossigeno con la città, agli stages e agli incontri internazionali, aperto ai e alle giovane palermitane che, come dice Dante in un’intervista, “desiderano trovare il loro linguaggio”. Quella che Anna Barsotti chiama “la lingua teatrale di Emma dante”, infatti, non è un sistema linguistico astratto, alto e ideale che si presta ad essere impacchettato per il cinema prêt-à-porter.

E così, è un passo ché la regista trasporta sul piano cinematografico lo stesso intuito registico, imprimendo nei suoi film il suo marchio teatrale vero-funzionale: il corpo e il gesto, la mancanza quasi totale di scenografia e oggetti scenici, la trasformazione incarnata dei moventi reali degli attori e delle attrici coscienti del proprio movimento e della storia materiale che raccontano. Un esempio per tutti è quello de Le sorelle Macaluso.

Le sorelle Macaluso, 2020 (Teodora Film)

Il film è una struttura in tre atti, le tre fasi della vita delle sorelle Macaluso, scanditi dal distacco e della – apparente – separazione. Il tempo è scandito in un procedimento poietico, nel senso che non si spiegano esplicitamente gli intrecci delle loro storie e il senso profondo del loro legame emerge nella rappresentazione materiale delle loro fasi di vita. Tant’è che ogni personaggio viene interpretato da tre attrici differenti – una per ognuno dei tre momenti e che noi riconosciamo non tanto per la continuità e la somiglianza nei tratti somatici quanto, piuttosto, per la gestualità, i movimenti e le espressioni che ne raccontano il carattere; una sfilata di dettagli quasi barocca che ci parla della continuità dell’esistenza di ognuna di loro: giocattoli, vestiti, stoviglie, rossetti, libri. Questa ritualità tipica del teatro pone il corpo di queste donne in primo piano, restituendo l’autenticità e l’immediatezza del loro vissuto; ma – di nuovo – non una ritualità sempre identica a sé stessa, anch’essa muta progressivamente e questo mutamento si esprime nel passaggio lento dall’iniziale vivacità sonora e colorata…al silenzio dei soli movimenti coi colori più tenui alla fine.

Le sorelle Macaluso è, soprattutto, un film sul tempo che passa e crea mutazioni, trasforma i corpi, li tramuta e, nello stesso tempo, produce staticità: è un progredire rimanendo bloccate, quello delle sorelle Macaluso che, chiuse dentro il dolore del lutto, non si danno pace e si contorcono in falsi movimenti che le tengono inchiodate al centro del dolore, e nel tempo il dolore agisce epidermicamente sui loro corpi. La scelta di fare interagire le sorelle di linee temporali differenti risulta suggestiva, poetica e capace di suggerire la qualità ciclica del tempo, il suo costante ritorno, l’impossibilità di procedere lungo un asse lineare che separi l’origine dal riscatto finale. Proprio come l’aspetto metanarrativo rappresentato dai colombi che ritornano sempre al nido della colombaia, così le sorelle, anche dopo la morte, tornano nella casa, non si sottraggono al legame familiare che le tiene contemporaneamente protette e imprigionate.

La casa è la sesta sorella, è un corpo che si modifica e invecchia come un personaggio, piena all’inizio del film, lentamente si svuota: la casa viene esplorata anatomicamente, le pareti scorticate, le macchie sui muri, i mobili, gli oggetti, gli angoli dove restano attaccati i ricordi e gli odori. L’ossessione per i dettagli è visibile nella presenza ingombrante dei mobili e degli oggetti, uno spazio occupato da “cose” che sopravvivono a chi le ha toccate e che, perciò, manifestano continuamente un’assenza. Lo sguardo della casa che ci guarda e ci attira, nonostante il disfacimento della carne e lo svuotamento delle stanze e le impronte dei quadri sulle pareti.

Il film è, insomma, un’estrazione, un intervento a cuore aperto, lo svelamento delle ferite che continuano a sanguinare, mentre una voce familiare e amata ripete che siamo bellissime.

Fin qui, ci sembra di poter dire che esiste quasi una sensibilità verista nelle registe del Mezzogiorno, ma non semplicemente nel senso di riportare la verità così com’è in senso documentaristico o fotografico. Pare piuttosto che i loro occhi creino gli spazi (a volte, come abbiamo visto, realizzati concretamente), sembra che riescano a catalizzare intorno a sé uno sfondo che si staglia davanti ai loro sguardi registici in contesti che altrimenti rimarrebbero indifferenziati e categorizzati per difetto.

Ma allora cos’è quest’attaccamento al Meridione? È la consanguineità? O basta l’interesse politico e narrativo? Voglio dire: registe del Sud lo si è o lo si diventa?

ROBERTA TORRE: cittadina per scelta 

Non a caso volgiamo al termine di questo excursus con una regista di origini milanesi ma di autorialità notoriamente (anche se non esclusivamente) sicula. A Palermo e al sud Roberta Torre ha dedicato una grande quantità di film, documentari e cortometraggi: Angelesse, Il cielo sotto Palermo, Appunti per un film su Tano, Palermo banditaLa vita a volo d’angelo e ovviamente Tano da morire (1997), Sud Side Stori (2000) e Angela (2002).

Roberta Torre è forse l’esempio migliore per indagare la complessità del rapporto che esiste fra lo sguardo di una regista, la verità e lo spazio, contemporaneamente fisico e narrativo. Lo spiega bene in una conferenza del 2006 a Roma sul suo film d’esordio “Tano da morire”, vincitore del premio Venezia “Luigi De Laurentiis”, di un Ciak d’oro, di un David di Donatello e di Nastri d’argento come migliore opera prima e come miglior regista esordiente.

Sul suo rapporto con la Sicilia, la regista sente di avere troppe cose da dire e a chi, come me, guarda con sospetto alla ruffianeria quanto alla morbosità o all’esotizzazione di alcune realtà, dà grande sollievo vedere che è ancora possibile porre nuovi accenti critici e attenti ma ancora affettuosi e appassionati alla propria realtà regionale. Roberta Torre non nasconde affatto la sua percezione della mafia come forma subculturale violenta e ancora sommersa nelle relazioni sociali.

La risposta di Roberta Torre sembra scaturire da una rapida interiorizzazione della cittadinanza palermitana, intrisa del vissuto e della consapevolezza di chiunque la viva di persona: una critica sofferta, amara, ma sentita forte e chiara sulla pelle.

In effetti, se il tema di “Tano da morire” non è di per sé una scelta originale, lo stile e lo sguardo della regista Torre tradiscono una presenza così forte e curiosa da farti – e forse persino farLE – dimenticare la sua estraneità natale. È perfettamente integrato lo spirito della regista che mentre critica e osserva la propria realtà ha bisogno di tagliarne la consistenza con un pesante atteggiamento tragicomico. E così viene fuori un musical colorato, scandito da alcune parti più serie e in bianco e nero. La storia (inventata)riguarda l’omicidio di un mafioso, Tano Guarrasi, ma non è lui il soggetto inquisito. A dispetto dei film che rappresentano la mafia come un fatto e un feticcio regionalmente connotato, storicamente identificabile e concluso, quella di Torre è una “mafia vissuta”, che viene raccontata tramite i flashback delle persone che circondavano e che ora compiangono il mafioso protagonista.

Tano da morire (1997)

Mafia e macchiette siciliane ne conosciamo tante nel cinema italiano e straniero, ma con Roberta Torre diventano il messaggio stesso o, forse, meglio il sentimento che si vuol trasmettere. Quel sentimento arriva perché la regista non resta fuori dalla scena ma butta il suo sguardo in mezzo alla mischia. Il risultato è che la mafia perde qualunque identificazione forte con fatti, persone o vicende uniche (di cui sarebbe facile disfarsi) ed emerge nella sua struttura essenziale ed universalmente estendibile: un sistema socio-economico che campa sulla cultura del dominio e della prevaricazione.

Non c’è alcuna indicazione morale in “Tano da morire”, ma la ricerca estetica e l’attenzione antropologica unite ad una straordinaria capacità ironica trasformano l’apparente assenza di giudizio in una critica feroce e contemporaneamente irresistibile: la vanità delle sorelle di tano è la faccia “femminile” della misurazione edonistica maschile nei club dei mafiosi, l’ostilità per i giornalisti estranei ai fatti è l’altra faccia della passivizzazione che invece deve subire chi è interno alla comunità. Così nella colonna sonora di Nino D’Angelo “’O rap ‘e Tano” il coro di donne che canta “ma com’era bello Tano mio, com’era mafiuso Tano mio” mostra la tragica banalità delle dinamiche sociali.

Ora, è impensabile sostenere che la regista abbia fatto un calcolo matematico su questa messa in scena. Più plausibile è che il suo coinvolgimento reale, fisico non abbia richiesto alcuno sforzo analitico e che la sua fine intelligenza estetica, unita ad uno sguardo – che come dice lei stessa è prevalentemente documentaristico – sulla realtà, abbia saputo “giocare” con un contesto narrativamente così ricco. In questa prospettiva, non sorprende che uno dei suoi più grandi amori come genere cinematografico sia proprio il documentario (che ad un primo sguardo sembra invece così distante dall’eccentricità del film).Infatti, oltre al teatro, al musical e alla varietà di stili – tanti che se fate il giochino di scorrere avanti velocemente sul film sembrerà di trovarsi in film sempre diversi – Tano da morire coglie perfettamente alcuni elementi palermitani irriproducibili a parole e invisibili alla prosa. In questo modo diciamo che il rapporto della regista Torre con il sud e con Palermo è un rapporto di “cittadinanza consapevole”, un rapporto la cui distanza non assume alcuna connotazione di disprezzo, né romantico né giudicante. La sensazione che si ha è quella di aver inteso qualcosa di atroce che inequivocabilmente ci appartiene e che proprio per questo posizioniamo a una distanza di sicurezza, come davanti al famoso quadro sulla “Vucciria” di Renato Guttuso o quando ci immaginiamo nella Vucciria della canzone di Alessio Bondì:

Ma allora cosa fa di una regista una regista del Mezzogiorno? Se non è la consanguineità, né la distanza prospettica, cosa possiamo dire sul rapporto fra le registe, il Mezzogiorno e la ricerca della verità?

DONATELLA MAIORCA: Mezzogiorno di fatto

Viene dalla città di Messina la regista che ha sconvolto la nostra rappresentazione cinematografica della Sicilia con il suo film del 2009 Viola di mare. La storia, in breve, è una storia d’amore che non avrebbe alcuna peculiarità se non fosse per le reazioni e per le pressioni sociali esterne davanti all’amore lesbico. In effetti, quando penso alla storia d’amore fra Angela e Sara coi loro occhi mi viene in mente una cosa di per sé ingenua e immediata, simile a quella canta da Cristina d’Avena:

Ma se ancora oggi il lesbismo non è pensato nella realistica ottica di due donne, due amiche, che si amano moltissimo, con la loro epidermide e col loro corpo, immaginate nella Sicilia di fine-Ottocento. D’altra parte, Viola di Mare di Donatella Maiorca non è neppure la solita storia di violenza gratuita contro le donne.

Veli neri e timore di Dio? Non proprio. Le siciliane di Donatella Maiorca sono donne fondamentalmente remissive, ma profondamente smaliziate e ostinate; sono donne che decidono di stare al gioco degli uomini, sì, ma solo finché il gioco non s’inceppa e si chiederà loro scegliere: guidarlo oppure uscire da tutti i giochi e perire. La storia trae ispirazione dalla suggestiva caratteristica proterogina della Donzella di mare. Questo pesce, infatti, conosciuto in Sicilia come Minchia di re, ha la peculiarità di nascere femmina e invecchiare maschio. Così fa – in parte – Angela che, grazie alla pensata della madre che decide di non poter più sopportare la prepotenza del marito nei confronti della figlia e facendo leva su un “debito”, una menzogna ricattabile del prete, corregge fa correggere il suo sesso all’anagrafe. Con questo escamotage tutto il paesino si deve arrendere alla testimonianza ufficiale. Angela si presenta col nome di Angelo e prende posto a fianco del padre a lavoro. Non dirò nulla in più del film perché sono convinta che bisogna poter osservare dal vivo l’andamento della storia per potersene fare un’idea, specie in un momento in cui la politica delle donne che non si esaurisce nell’acquisizione di diritti civili trova nuovi ostacoli politici nel polverone delle politiche identitarie.

Tornando al nostro quesito sul rapporto fra registe, Mezzogiorno e verità, però possiamo senz’altro dire questo: che è cristallino come il mare della Tonnara di San Vito Lo Capo, di Trapani e dell’Isola di Favignana rappresenti lo stretto rapporto fra gli spazi della trasformazione chimica e biologica con la libera esplorazione della sessualità femminile e lesbica. Un’evidenza molto più chiara nel film che nel romanzo Minchia di Re di Giacomo Pilati cui è ispirato. Forse perché, come ci confessa la stessa sceneggiatrice di Viola di Mare, Pina Mandolfo:

Lo sguardo femminile sul mondo (nella scrittura o nel cinema) è uno sguardo differente, che – consapevolmente o inconsapevolmente – differisce dalla regola maschile-neutrale perché è diverso il nostro vivere e guardare, la vita e tutto quanto ci circonda.

Poiché siamo state educate e siamo intrise di una cultura maschile che si è imposta con la presunzione di essere Neutra, mettere al mondo la soggettività femminile è un duro lavoro di decostruzione e di narrazione del non-detto prima, del nuovo, dell’impensato. Ecco, per esempio, in Viola di mare (o in qualsiasi mio lavoro cinematografico o narrativo) ho cercato di mettere in scena non la ricerca del potere di un essere umano su un altro, ma un cammino di auto-riconoscimento femminile verso la libertà.

Finisce qui la nostra prima puntata di Registe sulle Registe del Mezzogiorno, con queste parole sulla differenza sessuale, sulla cultura e sul nesso fra la ricerca della verità e il movimento del corpo in un mondo che pur precedendole non rimane loro estraneo. Un gioco di sguardi, quello delle registe Elvira Notari, Francesca Bertini, Emma Dante, Roberta Torre e Donatella Maiorca, uno sguardo che non insiste su un lato solo, uno sguardo reciproco col mondo che sta intorno, dentro e davanti a loro e che non mancano di manipolare ora con pitture sperimentali, ora con tecniche chirurgiche di selezione iconografica, ora col tessuto liquido di una realtà per sé vitale.

Sono Mia-Ansia L0ve e con Lauren Bacult e Parlotta Valdes vi offriamo il risultato delle nostre ricerche su She-nema – Il Cinema radicale delle donne. Alla prossima puntata di She-Nema con la nostra rubrica de “I Toccabili” su Antonioni e lo sguardo sulle donne

Musiche:

Alice Phoebe Lou, Witches

Alessio Bondì, Vucciria

Diana Dell’Erba, “Registe” (film trailer)

Gianna Nannini, Meravigliosa Creatura

Franco Battiato, Inverno

Red Crayola, Born in flames

Rosa Balistreri, Canto e cuntu

 

Fonti bibliografiche:

Enciclopedia delle donne – “Elvira Notari”

V. Martinelli, Il cinema muto italiano, 1992

G. A. Foster, Women film directors: an international bio-critical dictionary, 1995

Emmadante.com

V. Pravadelli, Le donne del cinema, 2014

Conferenze e interviste su youtube.

 

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Mia Ansia-Love

Quando pensi che il romanticismo non faccia per te e poi t'innamori dei film francesi, quando ti senti un'immigrata perenne e poi ti dicono "radical chic", quando studi il pensiero degli uomini per poi accorgerti che le donne sanno già tutto da sempre nasce Mia Ansia-Love: una persona che dirige l'ansia per poterla amare.

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