Quante volte vi siete imbattuti in trailer di film che sembrano fighi, ma che poi si rivelano molto al di sotto delle aspettative? Slevin ha il pregio di essere quel film che dal trailer sembra figo, e che poi si rivela effettivamente figo.
Slevin è in realtà un film molto paraculo. Ha forgiato la sua essenza su elementi che, messi tutti insieme, non possono che plasmarsi in qualcosa di gradevole e avvincente. Scopiazzando (o meglio, come direbbe quel registucolo di Knoxville, “omaggiando”…) lì dove serve per cavalcare le ondate dei migliori successi del primo lustro del nuovo millennio. Ma di quali elementi stiamo parlando?
- Un cast con i fiocchi, affiatato e di sicuro successo. Josh Hartnett è il protagonista della vicenda, il nostro Slevin. Lucy Liu, stupenda come ai tempi delle katane, è Lindsey, la vicina che gironzola intorno al protagonista. Bruce Willis è un sicario glaciale, appare poco ma lo si ricorda sempre, uno di quei ruoli in cui gioca in casa. Morgan Freeman “Il boss” e Ben Kingsley “Il rabbino” sono i due cattivoni di turno. Mettiamoci pure Stanley Tucci e Danny Aiello nel mezzo, e abbiamo un cast che assume in realtà più i tratti di una festa tra amici, così come fecero Danny Ocean e co. A proposito… Sapete perché Ben Kingsley viene chiamato ripetutamente “rabbino” nel film?
- La regia di Paul McGuigan. Dirige e colora il tutto con un’atmosfera cangiante e frizzante, che strizza l’occhio allo stile di Tarantino e alla narrativa fumettistica. Non a caso in quegli anni i fumetti si stavano affacciando al cinema in maniera dirompente. Sin City e V per Vendetta tra tutti. Anche i personaggi stessi sono caratterizzati secondo una certa logica, leggermente sopra le righe quel tantino che basta per rendere il tutto più coerente con lo stile di Slevin.
- Jason Smilovic, che firma una sceneggiatura originale calcolata al millimetro. Una storia che si torce, si contorce, si ribalta e si rovescia; a tratti anche troppo, ma riesce a chiude stupendamente ogni arco narrativo. A tratti non facile da seguire, Slevin è una di quelle storie che pretende un po’ di attenzione da parte nostra. Sparpaglia elementi qui e lì apparentemente insignificanti ma che acquistano un perfetto senso a mano a mano che ci si avvicina alla fine. E la fine vi lascerà senza parole.
- La mossa Kansas City. Ecco, il grande leitmotiv del film. Se dici Slevin, dici Mossa Kansas City. Non si sa bene cosa sia. Sai solo che è quella mossa dove ti giri a destra e ti ritrovi a sinistra. Forse è una sorta di profezia autoindotta. Forse c’entra qualcosa col fatto che esistono due Kansas City. O meglio, è una sola ma c’è il confine tra il Kansas e il Missouri che sega la città in due. Ognuno ci metterà il significato che vuole.
Insomma, Slevin è una sorta di Arlecchino, che si rattoppa la giacca con Tarantino e con i fumetti, ma grazie a questo e alla sua storia trova il suo personale modo di essere originale, insieme a tutti i suoi personaggi. Di sicuro, se fosse stato concepito nei nostri nuovi anni ‘20, sarebbe stata una serie di Netflix. Se avete voglia di vedervi una storia ben fatta, e vi siete già ampiamente ingozzati di film tarantiniani et annessi, Slevin è il film che fa per voi.