Da quando Emma Watson ha messo lo zampino (per fortuna!) ne La bella e la bestia non è più possibile limitarsi ad osservare a bocca spalancata il giallo abito di Belle che svolazza (seppur in una sala piena di libri) o canticchiare allegramente “stia con noi” senza interrogarci sulla pressione che Lumière sta facendo su una ragazza che si trova imprigionata in un castello disperso nel nulla per salvare il padre vecchietto e assai cagionevole di salute.
Ma anche io sono cresciuta a suon di “è una storia, sai, vera più che mai” e quindi non abbandonerò Belle (come ha fatto il suo cavallo Philippe, sic!). Le invenzioni di Maurice, il villaggio folcloristico, la biblioteca vicino casa, la fontana e la capretta dispettosa, io che “voglio vivere di avventure”, la sfacciataggine di Gaston e i suoi film sulla vita con me, i suoi piedi puzzolenti sulla mia tavola e la mia rivendicazione: una banda stonata e il leccapiedi che finisce nel porcile.
E poi il sogno inaspettato in un castello incantato: l’armadio, la teiera, il piumino, il candelabro; cene fantastiche, stanze segrete (l’Ala Ovest!). E ancora, il dramma: i lupi affamati, lo sguardo truce e pazzo di Monsieur D’Arque, avido di rinchiudere il padre di Belle (Maurice) nel suo manicomio, la neve, il freddo, la brama cieca di Gaston.
In effetti, forse è stato il forte amore per questo mondo incantato a mettere a tacere ogni dubbio sul latente maschilismo de La bella e la bestia. E poi arriva Emma e con lei tutte le criticità dello sguardo disincantato sul mondo e sul passato e…la “videocassetta originale Walt Disney Home Video”, improvvisamente, torna nel suo aspetto reale.
Una ricerca, quella della professoressa Maria Tatar (che insegna Folklore, Mitologia e Letterature germaniche ad Harvard), ne ricostruisce la genesi nel suo “Beauty and the Beast: Classic Tales About Animals, Brides, and Grooms From Around The World”. Pare che la favola sia così antica da rientrare in una di quei racconti che John Updike definisce una prima forma di televisione e di pornografia; avevi bisogno di queste storie drammatiche per sapere che la tua realtà poteva essere condivisa in altre parti del mondo e che molte di esse non sono affatto adatte ai bambini.
Ma neppure la realtà delle bambine, si sa, è sempre stata (o è ancora) così “adatta a loro”. Secondo Tatar, infatti, la storia di Belle – scritta per la prima volta da Gabrielle Suzanne-Barbot de Villeneuve e successivamente adattata e pubblicata da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont nel 1756 – è una narrazione, una specie di “manuale” per quelle oggi si denunciano come “spose-bambine” (una storia, sai, vera più che mai). Il messaggio sarebbe questo: “anche se tu hai 13 anni e tuo marito è molto più vecchio, brutto e rozzo di te, non ti arrendere: dietro un mostro potrebbe sempre esserci un uomo che ha paura e che può cambiare grazie alla bellezza, cioè alla tua gentilezza, al tuo coraggio e al tuo amore”.
Ecco, capite bene che per una femminista questo non è semplice da accettare. A meno che… oggi il messaggio non sia rivolto alla Bestia e la Bell(ezz)a sia un modello politico universale. In effetti, ancora Tatar, sottolinea come il confronto fra uomo e animale, fra umanità e mostruosità, fra chi è sano e malato in una società sia l’altro messaggio della storia di de Beaumont.
Ora, sarà che voglio a tutti i costi salvare i miei ricordi o semplicemente credo nell’adeguamento delle narrazioni al contesto storico che continuamente cambia linguaggio, eppure mi pare che se “l’uomo violento non è malato, ma il figlio sano del patriarcato” l’insegnamento di Belle sia certamente un atto femminista.
Le buone maniere a tavola, la cura e la compassione gratuite – incoraggiate dalla capacità di seduzione e di accoglienza di Lumière – sono un’eredità pedagogica universale che lascia una donna: quella di praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso.